E' buffo! Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti! da"Il giovane Holden" J.D. Salinger

10.07.2024

Cara Holden sei stata il mio sogno più desiderato.

Uno spazio in cui poter scrivere e leggere tutto il giorno e sentirmi autorizzata a farlo. Non hai deluso le aspettative regalandomi quel senso di appartenenza che sperimenta solo chi si sente solo e cerca riparo tra i suoi simili, anche se non li conosce.

Hai colmato il bisogno disperato di esprimermi insegnandomi a raccontare.
Mi hai vista emozionarmi e piangere in questo vecchio arsenale militare               all' ombra di un orologio che segna sempre l'ora sbagliata.

È giunto il momento di condividere questa storia perché, anche se dolorosa, come ogni cosa bella, va lasciata andare. Perché la parola convince, la parola salva. Questo è il mio primo racconto, abbiatene cura.

P.S. Non preoccupatevi!! È un racconto breve

Prisma


Sono le sedici in punto, in perfetto orario. L' appuntamento è presso questo vecchio palazzo in centro. La porta dello studio è aperta. Mi guardo intorno titubante, la sala d' aspetto è vuota. Sono inquieta. Pensare che qualcuno di li a poco si farà largo nelle increspature delicate del mio io mi fa sentire vulnerabile, indifesa. E se va male? mi ripeto. Andrà bene. Userò l' istinto. Questa maglietta rossa mi dona e, prima di uscire dal lavoro, ho ritoccato il trucco leggero. Sono così assorta nei pensieri da non accorgermi di lei. Una bella ragazza mora, capelli lunghi raccolti con una matita e al collo un gioiello artigianale, risultato della sapiente arte delle ragazze della comunità presso cui presta servizio. È giovane, tiro un sospiro di sollievo. Mi tende la mano. La stretta è giusta. Non sfuggente né troppo energica. Ricambio sperando di esprimere con la gestualità l' immagine che voglio restituire di me. Sono ancora nella fase del controllo. Mi fa strada nella stanza delle parole. Dai vetri filtra una calda luce che getta il suo riflesso su un tavolino basso al centro di due poltroncine di design dalla seduta avvolgente.

"Emanuela come sta?" La domanda più insidiosa e difficile quando non si ha una buona risposta. Ed ora che le dico. Se mento se ne accorge. E' il suo mestiere. Non devo mettermi nella propensione d' animo di essere rassicurante come faccio con tutti. Come estraniata mi sorprendo a dire "Sono così stanca che vorrei riposarmi anche da me stessa". Con uno sguardo mi incoraggia a proseguire. Ripercorro quella mattina in cui sono rimasta ferma in strada, impossibilitata a proseguire il cammino, aggrappata al corrimano di un marciapiede con la paura fottuta di cadere. La memoria emotiva è implacabile. Le mie gambe si irrigidiscono, il cuore accelera il suo ritmo. Con gli occhi della mente vedo un signore tendermi la mano. L'afferro con delicatezza declinando però la sua offerta di aiuto. Sono a disagio, provo vergogna. "Non voglio cedere" dico alzando il tono della voce. "Dottoressa il corpo mi sta abbandonando, perdo l' equilibrio, il mio eloquio non è chiaro. Tutto sta cambiando. La mia vita, ancora una volta, nel suo assurdo e incomprensibile percorso, sta prendendo una piega imprevista e dolorosa".

Boom! Sgancio la prima bomba. Lei ascolta con attenzione, annuendo con tutti i sensi in allerta.

"Il mio intuito non è fallibile perché la disabilità la conosco bene, come una poesia mandata troppe volte a memoria". Il tono, nonostante io abbia voglia di piangere, si fa ironico, divertito. "Lo chiami karma, destino. Anzi la chiami proprio sfiga". I suoi occhi attenti sorridono ma lo sguardo indulgente rimane fisso su di me. "Sono una caregiver, una di quelle mamme che qualcuno ama chiamare eroina. Mia figlia Alice è affetta da una rara patologia genetica, non cammina e non parla. So che tutti hanno paura di ammalarsi, ma lei capisce, io non posso permettermelo, non posso stare male". Come se dirlo ad alta voce significasse mettermi al riparo. "Per anni mi sono sentita investita di una missione così nobile, quella della cura, da arrivare ad annientarmi. Ho fatto mia la visione retorica del sacrificio come slancio appagante, anestetizzando ogni dolore. Illudendomi che l' apparente cancellazione della sofferenza fosse una soluzione definitiva. Sperando di poter vivere senza. Ho finito per manipolare l'esperienza del vivere inanellando uno dietro altro i giorni pieni del fare".

E qui calo l'asso. "Odio vedermi così rappresentata perché io non sono questa o, meglio, non solo questa. E' come se, per tanto tempo, io mi sia vista riflessa in uno Specchio delle Brame ed ora il mio stesso corpo, sempre più scricchiolante e sbilenco, stia distruggendo quella illusione restituendomi l'immagine reale di una qualsiasi superficie riflettente. Come se mi sussurri di cedere il passo imparando a vivere in armonia con tutte le parti"

La verità è coraggio e, una volta detta, ricompone tutti gli scenari.

Lei ascolta in silenzio. Mi sento nuda. I suoi occhi sono umidi. Percepisco l' empatia, la com-passione pura in questo silenzio cosi intenso che separa il parlare dal dire.

"Vede Emanuela non credo che accettare significhi rassegnarsi ma semplicemente capire che ogni cosa è quella che è ed è necessario trovare il modo di passarci in mezzo. Il dolore va accolto e attraversato così che arrivi domani a riempire ogni vuoto e a darci di nuovo l' opportunità di come e se farci felici". Non è fuggita pensandomi un caso disperato. Da quel giorno mi ha guidata in un costante dialogo con la verità del mio Sè che ha attraversato, quasi indenne, tutte le resistenze lasciandomi, anche di fronte ad una nefasta diagnosi, ogni volta sorpresa di essere ancora troppo intera per scompormi.

È cominciata la lotta contro il tempo, in un continuo divenire, e l' avversaria è questa malattia infiltrante che erode ogni mio punto di forza, le sembianze di normalità nell'espressione più scomposta di me. Ho scoperto la fragilità, la fallibilità, la lentezza, in un corpo che, sempre più malmesso, da alleato si è tramutato in nemico. Una nuova metamorfosi. Come una rana, questo animale transazionale che nella vita cambia condizione diverse volte, all' interno di un continuo processo di mutamento, anch' io cambio di stato. Da eroina a guerriera. Da accudente ad accudita. Sento tutto il peso della perdita ."Cazzo Doc" il tono si è fatto confidenziale al di qua dello schermo dove continuiamo ad incontrarci "perché proprio a me?" .

Lei ci pensa su e aggiunge "si può sfuggire alla propria ombra stando al buio ma nessuno può sfuggire alla propria storia".

Ha ragione Doc perché per prima ho incontrato la mia.

Oggi compio gli anni. Esprimo un desiderio di bambina, un volere la luna, quel sogno che pensi irrealizzabile e, anche se continui ad immaginarlo nella testa, non credi mai davvero accadrà. Mi sorprendo a fantasticare su ciò che farei se non dovessi fare i conti con la tua ingombrante presenza. Oppure cosa sceglierei se potessi riacquistare una, soltanto una, delle capacità che progressivamente hai logorato.

Come se l' unico tempo che conti fosse quello che si muove dentro di noi, il solo capace di resuscitare ogni cosa. Il desiderio si trasforma in un impellente bisogno. Riparare il danno provocato dalla perdita. Vorrei rammendare quel buco come si fa con un calzino sdrucito. Il processo è irreversibile. Invento un'inedita forma di sopravvivenza emotiva in cui metto in pausa le piccole battaglie quotidiane nascoste dietro ogni sorriso, movimento o parola, semplicemente per sentirmi "leggera", a volte oscillando, a volte cadendo, ma tutta intera.

Condizioni stabili. Rido, come sempre in bilico.

Questa sono io. Un prisma. Un elemento apparentemente monocolore ma che, attraversato da nuova luce, diventa la fusione di un'infinità di sfumature.


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